Severino Mistrorigo racconta senza fronzoli la sua esperienza di vita e di paziente affetto da IBD. Non fa sconti a quella che è una realtà dura da accettare ma che una volta affrontata – assicura – riserva tante sorprese felici. Inizia con Severino il nostro viaggio attraverso le vostre testimonianze, un percorso pensato per condividere, comprendere e, speriamo, contribuire a superare qualche ostacolo.
Severino Mistrorigo oggi è un uomo di trentuno anni anni, padre di Aisha e lavoratore autonomo nel settore della cura dell’auto. Un uomo consapevole e maturo che non ha paura di parlare di una compagna di vita scomoda e talvolta invalidante: la Malattia di Crohn. Vive a Chiampo, in Provincia di Vicenza, dove condivide la quotidianità con la fidanzata Elisa. “Non sempre è stato facile – dice – ma oggi mi sento sereno” come racconta in questa intervista.
Quando hai ricevuto la diagnosi di Malattia di Crohn?
Nel duemila, avevo dieci anni e frequentavo la quinta elementare. Ricordo che in quel periodo stavo spesso male, soffrivo di forti dolori addominali ed ero dimagrito molto. I miei genitori mi portarono dal medico di base e mi sottoposi a diversi esami. Riscontrarono dei calcoli alla bile, nonostante le cure effettuate, continuai a stare poco bene. Fino a quando tramite una cugina i miei genitori vennero a contatto con l’Ospedale di Padova dove ben presto mi prescrissero una colonscopia che sancì la presenza della Malattia di Crohn.
Com’è stata la tua adolescenza?
Buona. Certo con delle limitazioni e con un alternarsi di periodi buoni e meno buoni. Non ho ricordi di particolari rinunce o problemi. Il reparto di Pediatria dell’Ospedale di Padova ha sempre risposto efficacemente alle mie esigenze e una volta trovata la cura idonea alla mia situazione, sono stato sempre abbastanza bene. I problemi veri sono arrivati con la maggiore età, sia per una questione di passaggio dalla dimensione adolescenziale a quella adulta, sia, purtroppo, per motivi personali.
Un passaggio traumatico?
Sì, all’età di diciassette anni ho dovuto affrontare la perdita di mio padre Mario, un lutto gravissimo che ha portato disperazione e dolore nella mia vita. Sono certo che ha avuto anche delle ripercussioni forti sull’andamento della mia patologia infatti, le mie condizioni di salute sono peggiorate moltissimo. Il problema è che, un volta compiuti i diciotto anni, ho perso prima tutti i miei riferimenti clinici, non avevo più nessuno che si occupava di me e non ero più seguito come prima. Nessuno aveva saputo indirizzarmi verso una scelta precisa: un centro, un gastroenterologo, un ospedale. Nulla. Poi la morte di mio padre, devastante da un punto di vista psicologico e affettivo. Mi sono sentito doppiamente solo e smarrito.
Cosa senti di poter condividere di quell’esperienza?
Due aspetti fondamentali nel trattamento e nella cura di una patologia cronica come le IBD: quello del passaggio dall’essere pazienti pediatrici a pazienti adulti e quello psicologico. Il primo è un momento fondamentale, io mi sono trovato solo, senza un indirizzo, senza un appiglio. Avrei dovuto cominciare ad occuparmi di me stesso ma non sapevo come orientarmi, non avevo una guida. La mia famiglia era scossa da un grande dolore e io non sapevo a chi rivolgermi perché non ero a conoscenza dell’esistenza di strutture o centri che mi potessero aiutare e curare.
E quello psicologico?
Ho imparato sulla mia pelle che non è affatto secondario, cervello e intestino sono correlati, uniti da un filo invisibile. Quando si ammala la testa, l’intestino sta peggio. La perdita di mio padre ha scatenato la malattia, stati depressivi, un vortice da cui non riuscivo ad uscire. Un periodo che ha inciso profondamente sulla mia salute perché mi sono trascurato, non ho seguito le cure giuste e non ho fatto esami di controllo, tanto meno prevenzione.
Poi cosa è accaduto?
Tante cose, bellissime e bruttissime. È nata mia figlia Aisha, l’amore della mai vita, sono stato malissimo ma ho incontrato il dottor Renzo Montanari e il dottor Andrea Geccherle. Un incontro che mi ha cambiato la vita. Avevo circa ventidue anni e parlando con un’amica il cui fidanzato soffriva di Crohn, è saltato fuori il nome di Negrar e del Centro diretto dal dottor Andrea Geccherle, dedicato interamente alla cura e al trattamento delle M.I.C.I. Una svolta per me.
Com’è cambiato il tuo rapporto con la malattia dopo questo incontro?
Totalmente. Sono arrivato in condizioni davvero difficili e ho apprezzato la sincerità del dottor Montanari che subito mi ha detto la verità, avrebbero fatto di tutto per evitare l’approccio chirurgico ma non sarebbe stato semplice. E così è stato, ho fatto un periodo di terapie mirate che mi hanno fatto stare meglio ma la situazione era troppo compromessa. Con molto tatto e umanità mi è stato fatto capire che non avevo alternative: mi dovevo operare. Ho vinto la paura e mi sono sottoposto all’intervento chirurgico.
Com’è stato questo percorso?
Un cambiamento radicale, prima personale, nella mia testa è scattata la voglia di non arrendermi, di non darla vinta alla malattia. Poi nella concretezza della quotidianità, affrontare un intervento chirurgico non è una passeggiata. Ho trascorso un mese e mezzo in ospedale, a ventitré anni con una bimba di tre casa. Ho vissuto con una stomia esterna e mi sono sottoposto ad altri due interventi, di cui uno è stata la resezione del Colon. Da giugno 2013 a settembre 2014 l’Ospedale di Negrar è diventato la mia casa. Lo staff di chirurgia del professor Giacomo Ruffo che mi ha operato, una parte della mia famiglia. Quando è arrivato il tanto sospirato giorno delle dimissioni, il chirurgo mi ha dato il numero del suo cellulare, mi sono sentito protetto, accudito, curato. Come ha sempre fatto mia madre Assunta che ringrazio con tutto il cuore.
Una prova pesante?
Sì, ma oggi posso dire che mi sono ripreso la mia vita grazie alla forza di non arrendermi e al fatto di aver incontrato sulla mia strada un Centro specializzato, dove conoscono le patologie croniche dell’intestino, dove non c’è solo un gastroenterologo ma un’intera squadra di medici che si occupa di te. Trattano e curano migliaia di casi all’anno di M.I.C.I e questo fa la differenza. Così come la presenza di un’Associazione come AMICI Onlus e di una serie di supporti psicologici dedicati ai pazienti affetti da queste patologie.
Che contributo danno queste strutture?
Notevole, sapere che c’è un’associazione di persone che condivide la tua condizione di salute e promuove iniziative di sostegno è un aiuto enorme, anche se magari non ne usufruisci. Sai che c’è. Lo stesso vale per il fatto di sapere che ci sono psicologi, psicoterapeuti, specializzati nella cura degli stati emotivi, ansiosi e depressivi, tipici di queste patologie. Uno psicoterapeuta che conosce la tua situazione, che sa quello che provi, capace di comprendere la tua quotidianità è un valore aggiunto. Non ne ho fatto esperienza diretta ma nei tanti incontri promossi da AMICI Onlus mi è capitato di condividere queste convinzioni e di portare la mia testimonianza e ho trovato molte conferme.
Com’è cambiata la tua vita?
Tanto e in meglio. Mi devo gestire. Ma sto bene e sono sereno. Ho una compagna che amo, Elisa, un lavoro che mi sono creato, dapprima per esigenze legate alla malattia e, oggi, per passione: la cura delle automobili. Una figlia stupenda e la salute va bene, ripeto con delle accortezze, giorni più facili e giorni più complicati, ma nulla di insuperabile e la mia qualità della vita è enormemente migliorata. Ho scelto di non farmi condizionare, di non arrendermi e di vivere il più pienamente possibile. La malattia c’è stata, l’ho dovuta accettare, affrontare e combattere, ma non da solo. Vivo come se non ce l’avessi, senza dimenticare le cure, la prevenzione e i controlli però!
La malattia ha inciso sulla tua vita professionale?
Sì, dapprima negativamente poi positivamente. Ero dipendente e nonostante il mio datore di lavoro fosse a conoscenza dei miei disagi di salute, alcuni aspetti diventavano spesso un problema: il ricorso sovente ai servizi igienici, le assenze per le visite, le giornate di malattia, alla lunga sono diventate un problema. Tanto da indurmi a licenziarmi e aprire partita Iva. Inizialmente come gestore di un distributore di benzina e ora con la mia nuova attività nel settore automotive: la cura delle automobili. Quello che poteva essere un ostacolo, è diventato un’opportunità.

Cosa ti senti di dire a chi condivide queste patologie?
Di lottare, di non arrendersi, di vivere la vita. Di cercare un centro specializzato che conosca queste patologie e che sia strutturato per trattarle e curarle. Evitare le cure fai da te, i consigli degli altri pazienti, i forum e le ricerche sul web. Affidarsi a professionisti che possano garantire cure efficaci, farmaci di ultima generazione alla chirurgia. Fattori che nel mio caso hanno fatto la differenza. Ciascuno di noi ha la sua storia, siamo tutti diversi e reagiamo alle cure in modo diverso. I medici che mi hanno curato, occupano un posto speciale nella mia vita perché so di poter contare su di loro, mi fido e mi affido, senza mai venir meno alle mie responsabilità e alla mia voglia di vivere.
Se tracci un bilancio della tua esperienza cosa risulta?
Sono soddisfatto di me stesso, di come ho imparato a reagire ai problemi, ma sopratutto voglio ringraziare mia figlia Aisha, la mia compagna Elisa, la mia famiglia e tutti i medici, infermieri e membri del personale che ho conosciuto all’ospedale di Negrar perché sono persone fondamentali nella mia vita.