Una grande avventura

Nadia Lippa, bibliotecaria, madre di Elena e Giulia, moglie di Giuseppe e responsabile dell’Associazione A.M.I.C.I Onlus sezione di Verona, tocca i punti cruciali della sua esperienza di donna e di paziente affetta da rettocolite ulcerosa. Parla senza timori di quella che, nonostante la patologia, è stata ed è “una grande avventura” come afferma lei stessa in questa intervista. 

Passionale, sincera, altruista e coraggiosa. Nadia Lippa si toglie i panni di responsabile della sezione veronese dell’Associazione A.M.I. C.I. Onlus e parla della sua vita, di madre, moglie e donna affetta da rettocolite ulcerosa. Lo fa con la consueta generosità, onestà e forza, donandoci una testimonianza preziosa di volontà e impegno. 

Quando hai ricevuto la diagnosi? 

La diagnosi è arrivata nel 1995 quando avevo circa una trentina d’anni ed ero già mamma di due bambine, Elena di sei anni e Giulia di due. Da circa sei mesi soffrivo di dolori addominali e intestinali che continuavano a peggiorare, mi recavo frequentemente al pronto soccorso, ma il più delle volte mi dicevano che poteva essere la tensione, lo stress, una colite. Anche molte persone che mi erano vicine allora non capivano e dicevano che esageravo, che non dovevo preoccuparmi. 

Cos’hai fatto a quel punto? 

Ho provato a resistere, fin tanto che la situazione non è degenerata del tutto e ho cominciato a stare davvero male. Sono andata all’ospedale di Borgo Trento, mi hanno ricoverata nel reparto di gastroenterologia e dopo una colonscopia è arrivata anche la diagnosi: rettocolite ulcerosa.

Come è cambiata la tua vita dopo la diagnosi? 

Totalmente. Da quando mi fu diagnosticata la RU, ho perso le amicizie, ho perso la libertà, ho avuto paura di parlarne e mi sono ritrovata sola con l’eccezione della mia famiglia. Prima della diagnosi non avevo mai avuto problemi di pancia, dolori, è stato un exploit improvviso e traumatico. 

E sul lavoro?

Anche sul piano lavorativo è stata durissima, ho avuto tanti problemi, dalle incomprensioni dei colleghi che non capivano, ai malumori dei responsabili che mal digerivano le mie assenze, fino a cattiverie e offese personali che preferisco non ricordare. Oggi sono bibliotecaria presso il Comune di Verona e sono felice del lavoro che svolgo, ma non posso negare che la malattia mi ha un po’ tarpato le ali dal punto di vista professionale. Ho scelto un lavoro che fosse compatibile con la gestione della mia patologia. 

In che modo ti curavi? 

Parliamo di ventisei anni fa, esisteva solo il cortisone che veniva somministrato in quantità ‘industriali’. Il cortisone rende meno pesante il dolore e gli effetti della malattia ma ‘abbatte’ la persona. Mi sentii dire, dopo la somministrazione del farmaco, adesso può andare a ballare. Una frase detta con superficialità, forse non  con cattiveria, ma per me fu una pugnalata, perché mi fece sentire sminuita, abbandonata, non capita. 

Con quale criterio assumevi il cortisone? 

Lo prendevo fin tanto che cominciavo a stare meglio, poi sospendevo, non ero a conoscenza del fatto che si dovesse scalare prima della sospensione. Per questo motivo ho avuto una ricaduta tremenda e sono stata ricoverata in rianimazione,  dove mi hanno inserito una cannula nella giugulare per alimentarmi, e sono andata avanti per un mese ricoverata con l’alimentazione assistita. Oltre al rischio che, a causa dei bendaggi non sostituiti opportunamente, ho rischiato di prendere un virus che poteva rendermi cieca. Mi consigliarono di denunciare ma ero stata troppo male e volevo solo dimenticare quell’esperienza orribile.

Ti gestivi da sola?

Sì, gestivo io la patologia – con tutti i pro e i contro di questa situazione – nel senso che se da una parte ho imparato a conoscermi molto bene dall’altra non avevo gli strumenti e le competenze per curarmi adeguatamente, anche se un grande aiuto l’ho avuto dal mio medico di base. Dieci anni di cortisone, dieci anni di antiinfiammatori,  ricadute, dolori, preoccupazioni. E intanto c’erano due bimbe da crescere. 

Cosa hai pensato in quei momenti?  

Ho pianto di disperazione, avevo pensieri tristi, depressione. Un calvario durato dieci anni, fino al 2005, anno in cui ho incontrato Andrea Geccherle che mi ha dato ascolto e con lui abbiamo iniziato questa grande avventura. 

Cosa ti ha fatto più male? 

Quando sono stata dimessa, mi sono sentita dire che quella sarebbe stata la normalità della mia vita, volevo morire. Volevo davvero morire. Ho pensato al futuro che avrei potuto dare alle mie bambine, alla madre che sarei stata per loro, a mio marito. Non vedevo nulla di positivo. 

Nadia Lippa

Poi cosa è successo?

È scattato qualcosa dentro di me. Mi sono detta: non è possibile che non ci sia un’alternativa. Non volevo e non potevo arrendermi alla realtà che mi avevano posto davanti. 

E cosa hai fatto?

Ho cominciato a leggere, documentarmi, chiedere. Rompere le scatole un po’ ovunque. Padova, Bologna, Vicenza, Rovigo e ancora medici privati. Ma in ogni ospedale che andavo e ciascun professionista  che interpellavo, mi dava una versione e una visione totalmente diversa del problema dalle precedenti. Non capivo più niente e non sapevo a chi rivolgermi. Non esistevano reparti o centri specializzati allora. 

Com’è cambiata la situazione? 

Grazie a due episodi e alla mia caparbietà. Il primo è stato che ho appreso da un giornale dell’esistenza di un’associazione chiamata A.M.I.C.I che si occupava di queste patologie. Ero mentalmente stanca, fisicamente distrutta, psicologicamente a terra ma l’unica domanda che mi risuonava in testa era questa: e se mi torna cosa faccio? Sentivo di dover agire, di dover far qualcosa. Ho scoperto così Amici Onlus che all’epoca era regionale, la sede era a Padova e non ne parlava nessuno. E subito mi è scattata un’altra domanda: come faccio a portare un centro anche a Verona? Mi son data da fare per rispondere a quel quesito. 

E come sei riuscita a rispondere?  

È stato il destino e la mia testardaggine. Ho conosciuto il dottor Geccherle per motivi familiari non legati alla mia patologia, però colsi l’occasione di parlare dei miei problemi. Davanti alla mia richiesta di aiuto per fondare una delegazione veronese di A.M.I.C.I e avere un riferimento ospedaliero unico, mi disse: ne riparliamo tra un paio di mesi. È stato di parola e a lui va un immenso sentimento di riconoscenza e affetto. 

Si può dire che insieme avete realizzato un sogno? 

Più che un sogno, abbiamo reso concreta una visione. Avevamo le idee chiare su come doveva essere un centro specializzato, sulle necessità dei pazienti. Abbiamo lavorato gomito a gomito per creare un Centro di eccellenza, io dalla parte dell’Associazione, Geccherle dalla parte clinica. Un risultato eccezionale, proprio come lo desideravamo. 

Cosa ti senti di condividere di questa esperienza?

Voglio rivolgermi ai giovani, per far capire loro che le cose vanno sognate, costruite, difese e mantenute vive. E questo si fa attraverso il sacrificio, l’impegno e la forza di volontà. L’Associazione A.M.I.C.I ha questi obiettivi, ha bisogno di partecipazione di condivisione, soprattutto in tempi difficili come questi. Negrar per me è una realtà speciale, c’è tanta umanità. È una realtà ben consolidata con quasi settecento associati e un Centro multi-specialistico specializzato nel trattamento e la cura delle M.I.C.I., ma non è nata dal nulla, ci sono voluti anni e tanto lavoro. 

Ti eri immaginata una realtà come quella che esiste oggi?

Nella mia testa e nel mio cuore doveva diventare una famiglia, il Centro, l’Associazione e devo dire che a Negrar mi sono sentita compresa, stimata, aiutata, è davvero una famiglia. Se ripenso a come sono passati in fretta tutti questi anni e a quante energie abbiamo profuso in questa splendida battaglia non posso non commuovermi. Ho pensato anche ai giovani, che ci fosse per loro un punto di riferimento e che mai avrebbero dovuto provare la disperazione che avevo provato io e molti altri con me. 

É migliorata la tua vita?

È cambiato tutto, in meglio, perché piano piano si è costruito un rapporto di fiducia e stima, sapevo che avevo un supporto, persone preparate, competenti e attente alle mie esigenze a cui affidarmi. Ho trovato un punto d’appoggio, per la prima volta in vita mia ho avuto la consapevolezza che se avessi avuto delle ricadute sarei stata seguita. Non ero più sola. Sono cambiate tante cose, c’è un’organizzazione, terapie consolidate, possibilità di ricorrere alla chirurgia per le situazioni più complesse, ci sono i controlli, i farmaci biologici, gli esami, alcuni invasivi ma molti anche non invasivi. Una realtà strutturata e preparata. 

Cosa ti rende orgogliosa?

La mia famiglia, le mie figlie, mio marito Giuseppe che mi sostiene da un vita. Sapere che se oggi i più giovani non vengono a conoscenza delle sofferenze che abbiamo patito noi un po’ più maturi. Un po’ di merito, lo sento anche mio e queso sentimento mi riempie di orgoglio e di gioia.